Falling down prejudice

 




Falling Down Prejudice

Prejudice does not strike from above like lightning: it drags us downward.
Every stereotype is a brick, every stigma a chain.
Thus society does not move forward but falls backward,
towards a closed world without windows, without oxygen.

“Falling down prejudice” is the name of the fall:
a vortex that reduces the other to a caricature,
that narrows the horizon until it fades.
There is no movement, only collapse;
no opening, only asphyxia.

Prejudice does not destroy with explosions, but with subtractions:
it erases spaces, suffocates possibilities, dismantles the social bond.
It is the slow poison that disguises fear as certainty,
fragility as superiority, ignorance as truth.

And yet, at the darkest point of descent, a possibility remains:
to dismantle the invisible walls,
to release the ballast,
to recognize the human in the human.
Art and conscience are still fissures,
tiny openings through which air can pass.

We must learn to look our own ghosts in the eye,
to name distortions,
to dissolve the grammar of hatred.
Only then can the fall be interrupted.

Without this act, without this resistance,
the destiny is the blind bottom of a society that has chosen to deny itself.
With it, instead, a new horizon can emerge, fragile but real:
a space where differences are no longer a precipice,
but the common ground from which to begin again.


Luigi Starace, 2025 






Falling Down Prejudice —  (Italiano)

Il pregiudizio non colpisce dall’alto come un fulmine: ci trascina verso il basso.
Ogni stereotipo è un mattone, ogni stigma una catena.
Così la società non avanza, ma cade all’indietro,
verso un mondo chiuso, senza finestre, senza ossigeno.

“Falling down prejudice” è il nome della caduta:
un vortice che riduce l’altro a caricatura,
che restringe l’orizzonte fino a spegnerlo.
Non c’è movimento, solo collasso;
non c’è apertura, solo asfissia.

Il pregiudizio non distrugge con esplosioni, ma con sottrazioni:
cancella spazi, soffoca possibilità, smembra il legame sociale.
È il veleno lento che traveste la paura da certezza,
la fragilità da superiorità, l’ignoranza da verità.

Eppure, nel punto più oscuro della discesa, resta una possibilità:
smontare i muri invisibili,
liberarsi della zavorra,
riconoscere l’umano nell’umano.
L’arte e la coscienza sono ancora fenditure,
piccole aperture da cui può passare aria.

Dobbiamo imparare a guardare i nostri stessi fantasmi negli occhi,
a nominare le distorsioni,
a dissolvere la grammatica dell’odio.
Solo così la caduta può essere interrotta.

Senza questo gesto, senza questa resistenza,
il destino è il fondo cieco di una società che ha scelto di negarsi.
Con esso, invece, può emergere un nuovo orizzonte, fragile ma reale:
uno spazio in cui le differenze non siano più precipizio,
ma terreno comune da cui ripartire.







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